Ciao Flavio, bentrovato, come stai? Ci racconti qualcosa in più su di te e sul tuo percorso?
Ciao Giada, tutto bene e grazie ancora per questa opportunità. Mi chiamo Flavio Moceri, ho 18 anni e vengo da un piccolissimo paesino della Sicilia che conta meno di 10.000 abitanti.
Il mio percorso non è stato sicuramente lineare, ho scoperto questo mondo della programmazione all’incirca quando avevo 15 anni e sono stato influenzato molto da mio fratello, che come professione fa appunto il programmatore. Ogni volta che iniziavo ad imparare ed apprendere, tramite video su YouTube o corsi gratuiti su codecademy, dopo qualche mese mollavo e mi chiedevo se ciò che stessi facendo fosse realmente la mia strada. Mi sono reso conto solo qualche anno dopo, che il mondo della programmazione, per quanto difficile e alcune volte frustrante, fosse l’unico che mi ispirava, mi divertivo a risolvere le tasks e vedere il risultato delle mie azioni. Sono dell’idea che la programmazione, ma anche più in generale dell’internet in sé, specialmente in questo periodo porterà alla formazione di nuovi lavori, quindi se c’è qualche ragazzo che sta leggendo, vi dico che se siete appassionati, questo settore sicuramente può darvi molto.
Sono entusiasta di questo periodo storico perché riusciamo a creare valore attraverso l’uso delle nostre menti e cerchiamo di sostituire sempre di più la forza lavoro con l’utilizzo dei robot. So che quest’ultimo argomento può creare discussioni, ma basta guardare il passato. Non penso che nessuno si stia lamentando perché non esiste più il mestiere del lampionaio.
Da dov’è nato il progetto StartsWell?
Dopo la maturità, sono stato tre mesi a Londra per migliorare il mio inglese e per uscire fuori dalla mia zona di comfort. Passare da un paesino di 10.000 abitanti ad una città di 9.498.212 abitanti non è sicuramente facile. Nel corso di questi tre mesi, nei gruppi di WhatsApp ovviamente si parlava della scelta dell’università e dei soliti topic che si discutono una volta finita la maturità. In un primo momento non ci ho dato peso. Qualche giorno prima di tornare a casa però, mentre parlavo con un mio amico, percepisco rileggendo anche le chat passate, che dopo la maturità (e suppongo sia lo stesso anche per molti ragazzi che finiscono l’università), inizi a salire un’ansia particolare nei confronti del futuro, non sapendo esattamente cosa farai dopo, perché non hai effettivamente nessun supporto o mezzo che ti metta in comunicazione coi lavori che effettivamente ti troverai a fare.
Da qui nasce l’idea di StartsWell. Dopo poco ne parlo con mio fratello, cerco su internet se qualcuno l’avesse già fatto ed inizio a scrivere il codice.
Ad oggi te ne occupi autonomamente o c’è un team a supporto?
L’idea è stata lanciata da pochissimo. Ad oggi gestisco prevalentemente quasi tutto io, faccio sicuramente affidamento a mio fratello quando non riesco a risolvere qualche problema e in questi giorni sto iniziando a sponsorizzare la piattaforma per far conoscere il nome e lo scopo stesso di StartsWell.
Cosa offre StartsWell e come si differenzia dalla concorrenza?
L’idea di StartsWell è molto semplice. I mentor possono offrire la loro disponibilità e scegliere una tariffa che ritengono adeguata alle loro competenze ed esperienze. Possono decidere se tenere per sé l’importo (al momento non ho inserito commissioni) oppure devolverlo in beneficenza. Gli utenti possono cercare i professionisti e filtrare la ricerca in modo tale da trovare il mentor più indicato considerando le proprie aspirazioni.
È possibile scegliere il mentor, prenotare la chiamata, effettuare il pagamento in pochi minuti. Semplificando il processo, l’esperienza diventa piacevole per entrambe le parti, che hanno la possibilità di dialogare senza doversi preoccupare del resto.
Per quanto riguarda la concorrenza, ho sentito parlare di alcuni siti italiani simili, ma sono dell’idea che non sia abbastanza, bisogna cercare di far conoscere la piattaforma a molte più persone. Ogni giorno tramite LinkedIn vengono contattati decine di esperti chiedendo se sono disponibili per fare una consulenza, ciò porta alla conclusione che non ci sia ancora una piattaforma leader e conosciuta in queste settore.
Chi sono i mentor?
I mentor sono persone qualificate che verifico prima di inserire all’interno della piattaforma, li contatto io stesso o mi scrivono loro tramite LinkedIn o il form che si trova sul sito. Revisiono il loro profilo, ci parlo per conoscere la loro storia, controllo le loro esperienze e referenze da parte di persone che confermano le loro competenze. Un processo che richiede sicuramente un po’ di tempo, ma che è essenziale per offrire agli utenti che usano StartsWell il miglior servizio possibile.
Quanto hai trovato difficile orientarti nel mondo del lavoro? Hai avuto un mentor a cui fare riferimento?
Non ho ancora un’esperienza così forte da poter parlare del mondo del lavoro, ma sicuramente mi sento di dire che cercare di entrarci parallelamente magari al percorso di studi che si sta intraprendendo, ti mette nella condizione di avere una marcia in più rispetto a coloro che hanno fatto un percorso standard. Ti fa aprire gli occhi su come effettivamente funziona il mondo reale e capire gli ingranaggi che fanno funzionare questa macchina.
Il mio mentor è stato al 100% mio fratello, ho sempre percepito vivere in Sicilia, come vivere in una sorta di bolla, se stai qui e soprattutto se stai in un paesino come il mio, vieni automaticamente influenzato dalla cultura, dai modi di fare. Ma se riesci ad uscire da questa bolla capisci che il mondo che hai conosciuto nel tuo paesino, esiste solo lì e sicuramente colui che mi ha aiutato a fare esplodere questa bolla e a farmi capire che esistono altri mondi al di fuori del paese in cui si nasce è sicuramente mio fratello.
Quali credi siano i più grandi scogli del mondo del lavoro di oggi? Quali le potenzialità?
Non saprei dire, ogni percorso è diverso ed è difficile trovare una risposta generale che risponda a tutti i settori del mondo lavorativo. Direi che il mio grande scoglio è riuscire ad ottenere la credibilità di ciò che fai. Soprattutto se sei giovane e subentri all’interno di questo mondo, nessuno ti prenderà troppo sul serio e puoi riuscire a cambiare ciò solo con le tue azioni. Per quanto riguarda le potenzialità è impossibile elencarle tutte, ma sicuramente poter creare valore grazie ad un computer e grazie all’uso delle nostre menti è un tipo di potenzialità nel mondo del lavoro che prima non esisteva e penso che sia importante perché effettivamente è l’unica vera componente che ci distingue dalle altre forme di vita che vivono sul nostro pianeta.
Cosa ti aspetti dal domani?
Eh, domanda difficile, sicuramente spero di poter fare dei passi importanti con StartsWell e vedere che effettivamente l’idea funziona, cercando di portare valore alla società.
Più in generale mi aspetto la nascita di nuovi lavori nell’ambito del digitale, del web 3.0 ecc. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma specialmente negli ultimi 10-15 anni abbiamo apportato miglioramenti così radicali che sarebbe impossibile per i nostri antenati anche semplicemente immaginarlo e vorrei con tutto il cuore che questo trend continuasse.
Ciao Valentina, grazie per la disponibilità. Ci parli un po’ di te e del tuo percorso professionale?
Grazie mille per avermi invitata a condividere il mio percorso. Attualmente mi occupo di sviluppo di carriera e talent management presso un fondo delle Nazioni Unite. Se al momento posso confermare di sentirmi nel mio posto, questa sensazione non ha caratterizzato gli ultimi 7 anni della mia vita. Il file rouge del mio percorso è la passione per le lingue e un amore immenso per la commistione tra culture. A parte questo, ho cambiato il lavoro dei sogni diverse volte, passando da ambasciatrice in Germania, una nazione che amo tantissimo, fino all’interprete. Il mio è quel percorso che i recruiter definirebbero come “non lineare”. Ho iniziato con una triennale in mediazione linguistica e interculturale, per poi proseguire con un master in interpretariato in lingua tedesca. Neanche quella sembrava essere la mia strada. Lo percepivo un ambiente troppo competitivo e non si allineava con il mio modo di vivere la vita e intendere il mondo del lavoro. Così, dopo il master ho proseguito con una laurea magistrale in Economia e Management Internazionale, con metà degli esami in lingua inglese. Ho proseguito poi la mia specializzazione in HR attraverso vari corsi gratuiti, un master di cui sono stata anche tutor e tanta formazione.
Risorse umane. Cosa ti ha spinta ad abbracciare questo ambito?
Durante la magistrale sentivo che stavo procedendo verso la giusta direzione, ma mi mancava ancora una meta definita. Questa illuminazione è arrivata mentre studiavo per un esame – l’unico dato da non frequentante, che casualità! – in Intelligenza Emotiva e gestione delle risorse umane. Lì, tutto ebbe un senso. Potevo unire la mia empatia e il desiderio di aiutare gli altri con uno dei miei principali talenti: trovare opportunità cucite sulle aspirazioni delle persone che mi stavano accanto. Dopo la laurea in Intelligenza Emotiva e gestione delle risorse umane nell’industry 4.0, non ho più abbandonato il mondo HR. Ho iniziato a pubblicare articoli per un blog del settore e poi ho deciso di dedicarmi al mio progetto personale More Human Resources.
Cosa significa lavorare in UNFPA?
Lavorare con il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione significa contribuire al raggiungimento di 3 obiettivi fondamentali:
porre fine alla violenza di genere,
favorire la salute riproduttiva di donne e giovani,
impedire che altre donne muoiano come conseguenza del parto.
Anche se non sono nel field a gestire programmi, lavorare nelle risorse umane mi permette di prendermi cura dello sviluppo di carriera delle persone che lavorano nelle varie regioni del mondo. Quindi, analizzare i bisogni di sviluppo specifici per diversi ruoli e definire programmi ad hoc è comunque un’attività di grande valore, perché permette all’organizzazione di raggiungere in modo più efficace gli obiettivi citati.
Ci racconti qualcosa in più sul tuo progetto personale More Human Resources?
Il progetto More Human Resources è nato in un periodo molto difficile del mio percorso professionale. Mi sono laureata a marzo 2020 e il momento storico era molto particolare, di sicuro non il più favorevole per trovare uno stage. Così, ho cercato di fare di questa frustrazione qualcosa di utile. Avevo tantissime risorse a disposizione sul mondo della formazione e del lavoro, grazie al mio tirocinio curriculare svolto durante la magistrale come editrice di un sito che si occupava di aiutare i giovani a trovare opportunità di lavoro e corsi in Italia e all’estero.
Mentre cercavo di focalizzare il mio obiettivo di carriera, volevo dare un senso a quel periodo lavorando sulla mia mission, che è quella di migliorare il livello e la qualità dell’informazione dei giovani sul mondo del lavoro, far conoscere loro le diverse opportunità a disposizione e accompagnarli in questo viaggio alla scoperta di sé. Da questa missione, a novembre 2020 è nato More Human Resources, una pagina Instagram su cui condivido opportunità di formazione, borse di studio, offerte di stage e lavoro, percorsi di sviluppo delle soft skill, e non solo. Essendo oggi una professionista HR in organizzazioni internazionali, una parte dei contenuti è dedicata a rendere più comprensibile il lavoro in realtà che spesso intimoriscono.
Il progetto More Human Resources nasce poi da una promessa di tanti anni fa: contribuire, nelle mie possibilità, a far in modo che nessun giovane debba rinunciare al proprio obiettivo di carriera soltanto perché non ha le risorse per raggiungerlo da sé. Un’altra parte fondamentale della mia attività di informazione è legata a consigli pratici sulla stesura del CV e della lettera motivazionale. Tutto risponde all’obiettivo di aiutare i giovani che mi seguono a sviluppare un’idea più chiara sul mondo del lavoro e avviare la loro carriera con più consapevolezza di sé e delle opportunità a loro disposizione.
Perché scegliere di fare un’esperienza di volontariato in Italia e/o all’estero?
Che il nostro obiettivo sia quello di lavorare all’estero o restare in Italia, svolgere un’esperienza di volontariato online o in sede significa iniziare a uscire dal mondo della formazione per inserirsi in quello professionale. Perché intendo esperienze di volontariato come esperienze di lavoro? Perché attraverso queste attività siamo in grado di capire come si comunica all’interno di un team, come possiamo gestire il tempo per raggiungere un determinato output e in che modo definiamo il nostro ruolo all’interno di un’organizzazione. Queste sono le differenze principali con la formazione universitaria che, sebbene di grande valore, credo sia ancora più valida se completata da esperienze di questo tipo.
Le soft skill che apprendiamo attraverso un’attività di volontariato, che sia all’estero o dal nostro divano, ci faranno vivere la prima esperienza di stage o lavoro in maniera molto più consapevole. Il volontariato è uno degli argomenti che tratto più spesso sulla pagina, proprio perché ritengo che sia di grande valore. La mia esperienza con il volontariato risale al liceo, quando iniziai a fare la volontaria con la Protezione Civile del mio paese perché sapevo che mi avrebbe dato CFU utili. Quello che non sapevo, però, era quanto di me avrebbe cambiato e migliorato in qualità di individuo.
Un altro elemento che vorrei condividere su questo argomento è l’importanza del networking che esperienze simili possono aiutarci a costruire. Probabilmente molti giovani non lo sanno, ma almeno il 70% della ricerca di lavoro dovrebbe essere costituita da attività di networking. Questa è spesso una delle ragioni per cui inviare il CV non ci fa ottenere i risultati sperati. Se solo qualcuno me lo avesse detto 2 anni fa mentre mi chiedevo cosa non andasse in me, dato che nonostante un percorso accademico di eccellenza non trovavo un’opportunità di stage! Questa riflessione mi ha portata a sviluppare una guida sul networking per lo sviluppo di carriera, disponibile gratuitamente sulla pagina.
Quali sono i primi passi da muovere per una carriera internazionale?
Una carriera internazionale può essere tante cose: lavorare in lingua inglese con un’azienda multinazionale in Italia, trasferirsi all’estero, lavorare da remoto presso un’organizzazione internazionale, ecc. Il primo consiglio che posso dare è quello di fare un’analisi del proprio obiettivo professionale di breve e medio termine e preparare su questo un piano di carriera. Il piano deve essere elaborato attorno a una SWOT analysis che ci aiuti a individuare le nostre aree di forza, quelle in cui possiamo migliorare, eventuali sfide dall’ambiente esterno e opportunità a nostra disposizione. In base a questo, possiamo poi decidere quale di questi diversi contesti fa per noi. Ricordandosi che il piano di carriera cambia in base a come si evolvono i nostri bisogni, ci sono delle competenze o requisiti comuni per lavorare nei vari scenari indicati prima. Ad esempio, avere una buona conoscenza delle lingue, almeno dell’inglese. Anche sulle questo, fare una ricerca di quelle più richieste dal contesto di interesse è molto rilevante. Se so che per lavorare con l’Unione Europea il francese è quasi sempre richiesto, incrementare le conoscenze di questa lingua mi aiuteranno ad avere un ventaglio maggiore di opportunità a cui candidarmi. In merito a questo, qualche tempo fa ho pubblicato un reel sulla differenza tra i requisiti per entrare nel mondo dell’ONU e nelle istituzioni europee. Qual è il messaggio? Se continuo a puntare su una direzione che non è (ancora) la mia, non posso pretendere un risultato diverso nel breve termine. E’ un po’ quello che cercavo io subito dopo la laurea. Mi candidavo soltanto per posizioni HR con agenzie per il lavoro, e avevo bisogno che fossero da remoto. Per un anno non sono riuscita a ottenere uno stage. Il problema non ero io, ma il contesto in cui mi candidavo, in cui le mie competenze di comunicazione interculturale, la conoscenza delle lingue e la formazione internazionale non erano utili all’agenzia. Nel momento in cui ho iniziato a candidarmi per le realtà che cercano questo tipo di background, allora le cose sono iniziate a cambiare.
Quindi, per concludere: prenditi il tempo di capire cosa cerchi, fare un bilancio di competenze e/o interessi, capire come questi possono tradursi in attività lavorative e candidati per i contesti in cui il tuo profilo aggiunge valore. Datti tempo. Per trovare il mio primo stage nell’ONU ci è voluto un anno e 163 candidature in cui ho ricevuto un “NO” come risposta. Prendi questi feedback e valorizzali per capire se hai bisogno di specializzare la tua formazione in una funzione precisa o per rendere più efficace il modo in cui ti presenti tramite CV, cover letter e interazioni sui social. Ricorda che il NO è rivolto al tuo profilo per quella posizione specifica e in quel momento definito. Non è un rifiuto nei confronti della tua persona. Questo è importantissimo da ricordare!
Una convinzione che molti neolaureati e neolaureate hanno sulle carriere internazionali è che avere una laurea in relazione internazionali sia l’unica cosa che conta. In realtà, questo ci allinea con il contesto, ma non necessariamente con la posizione. A meno che tu non lavori in ambiti di ricerca, le funzioni in cui ti inserirai sono molto specializzate, come legal, HR, marketing, strategic partnership e molto altro. Ecco perché è importante iniziare ad acquisire competenze pratiche attraverso tirocini, esperienze di volontariato, collaborazioni o progetti personali in quel particolare ambito.
Un consiglio che daresti a chi si è appena laureato e cerca di inserirsi nel mondo del lavoro.
Oltre a quello di seguire la mia pagina e gli altri progetti di content creator in ambito Risorse Umane o nel settore specifico per cui si cercano opportunità, il mio consiglio più grande è informarsi. Questa per me è la parola chiave. Innanzitutto, partire dal conoscere le posizioni a cui puoi candidarti grazie al tuo percorso di studi. Le università stanno iniziando a mettere in atto opportunità di mentoring, placement e altre occasioni di confronto con chi è già inserito nel mondo del lavoro. A questo si aggiunge il nostro approccio più mirato. Ad esempio, se ho una laurea in relazioni internazionali e non so a quali posizioni candidarmi oltre alle più note, posso visitare i portali del lavoro, cercare “relazioni internazionali” e scoprire che dal candidarmi soltanto presso ambasciate, di fatto posso ricoprire posizioni in ambito HR, legal, comunicazione, ricerca, analisi dati, relazioni istituzionali e molto altro ancora. Questo vale per tanti altri percorsi che ci offrono una base di conoscenze molto ampia, che poi possiamo imparare indirizzare verso un percorso specifico. Una volta individuate le principali posizioni che mi interessano, il secondo step può essere quello di cercare su LinkedIn persone che svolgono quella posizione per capire di cosa si occupano in concreto, connettersi con loro e trovare dei role model o mentor che ci possano fornire gli strumenti e le conoscenze utili su quel settore particolare, che avrà le proprie caratteristiche e peculiarità difficili da captare se non lo viviamo dall’interno.
Faccio un esempio pratico: per lavorare in HR presso le aziende oggi la combinazione triennale più master sembra essere quella più efficace. Questo però non è necessariamente il caso di una persona che vuole lavorare in organizzazioni internazionali, perché il nostro master non è equiparato a una magistrale per il sistema UN. Questi consigli e informazioni sono qualcosa che soltanto chi lavora nel settore conosce. Ecco perché da poco ho iniziato anche la rubrica “Ti spiego il lavoro con le Nazioni Unite” e ho reso disponibile sul profilo una guida gratuita su come lavorare nell’ONU. Per la stessa ragione, quando dei giovani mi chiedono come iniziare a lavorare in settori che non conosco, come ingegneria o finance, li rimando alle creator che si occupano proprio di questo. Da candidati, non possiamo imparare a conoscere un settore in un mese, ma quello che possiamo fare per iniziare a capire come funziona è proprio il networking.
A tuo avviso quali sono le soft skill più richieste nel mondo del lavoro di oggi?
L’elemento delle soft skill è fondamento per il mio progetto. Chiamarlo More Human Resources aveva l’obiettivo di far capire ai giovani quanto ciò che ci distingue, alla fine, è ciò che ci caratterizza come persone, il nostro lato umano. Non è un caso se attività di volontariato, collaborazioni e attività affini sono quello che consiglio ai giovani di sperimentare. Quando mi sono trovata a selezionare tirocinanti, quello che potevo utilizzare come fattore che mi permettesse di differenziare il profilo di un candidato dall’altro sono proprio queste attività a cui tendiamo a dare minore importanza. A volte è importante osservarci dall’esterno, come farebbero i recruiter e chiederci: Tolta la formazione tecnica simile per tanti candidati, su cosa possono basare la mia valutazione i recruiter? Cosa comunico di me? Il percorso di studi è sufficiente a definire chi sono come persona o il contributo che posso offrire come professionista? Ci sono altre attività, anche meno rilevanti, che mi hanno permesso di sviluppare skill rilevanti per il ruolo?
Soprattutto per figure junior, in cui i profili sono simili, puntare sulle soft skill quando abbiamo già un buon livello di competenze hard richieste dalla posizione può facilitare il lavoro dei recruiter e aiutarli a capire meglio chi siamo e che ruolo potremmo avere in quel contesto. Esperienze che hanno permesso ai candidati di sviluppare le capacità comunicative, stare in un team con persone di background differenti, allenare l’ascolto attivo o svolgere attività di in cui hanno dovuto imparare a gestire situazioni complesse e con problemi inaspettati sono alcuni di quei contesti che permettono alla persona di maturare consapevolezza di sé e del proprio stile lavorativo. È questo che si cerca: una persona che sia in grado di partire da ciò che è ed essere abbastanza aperta all’apprendimento continuo da crescere insieme al team di cui entra a far parte. Concludo ribadendo che oltre a queste competenze più trasversali e comuni al mondo del lavoro di oggi, è importante capire quali sono le soft skill core per la posizione lavorativa che desideriamo ricoprire.
Un libro da leggere almeno una volta nella vita.
Un libro che ha dato una nuova direzione alla mia prospettiva è “Lavorare con Intelligenza Emotiva” di Daniel Goleman, da cui è iniziato il mio amore per questo argomento e su cui si è basata la mia tesi di laurea. Per quanto questo libro sia stato illuminante, vorrei consigliarne uno che raccoglie tanti degli argomenti trattati nella nostra intervista e che si ritrovano spesso nel mio progetto: “Funzionare o esistere” di Miguel Benasayag. Il testo mi ha appassionata particolarmente, perché è davvero attuale. È una domanda per me esistenziale, in quanto spesso ci troviamo di fronte al dilemma di scegliere tra comportarci senza commettere errori e “funzionare” oppure vivere, accettando di poter sbagliare ed “esistere”, in tutta la nostra umanità.
Grazie davvero Valentina per aver condiviso con noi il tuo percorso, il tuo progetto More Human Resources e dei consigli molto utili e pratici da mettere in campo.
Ciao Taryn, grazie per la tua disponibilità a partecipare a Giada’s Project. Ci parli un po’ di te e del percorso che ti ha portata dove sei oggi?
Ciao Giada! Sono Taryn, romana di nascita, milanese di adozione e da qualche anno vivo a Fano, dove ho iniziato un nuovo capitolo della mia vita, quello da mamma e da freelance. Dopo una decina di anni di lavoro dipendente nelle multinazionali, ho deciso di aprire una mia attività, per poter bilanciare meglio il lavoro con la famiglia, ora quello che sto facendo è aiutare tante altre mamme a fare lo stesso.
Dov’è nato il progetto ‘Un lavoro per mamma’?
Il progetto Un lavoro per mamma è nato sul terrazzino di casa mentre addormentavo mia figlia un pomeriggio del gennaio 2020. Ad un certo punto mi è balenato in testa, anche se ancora non ne conoscevo il nome o i dettagli, ma è arrivato e ho detto: è lui. Questo è il mio progetto, quello che farò.
Quali sono le difficoltà più grandi con le quali le mamme di oggi si trovano a fare i conti?
Non riuscire a bilanciare il tempo tra lavoro e famiglia, non riuscire a dividere equamente il carico mentale e organizzativo con il partner e la difficoltà di essere discriminate sul lavoro.
Quali sono le paure e gli scogli maggiori da superare?
Non riuscire a dedicare il giusto tempo a tutti gli aspetti della vita, essere costrette a dover scegliere tra carriera e lavoro, pentirsi per aver scelto una o l’altra. Aggiungo anche combattere con l’idea che una volta diventate mamme si diventa personaggi di serie B.
Cosa ti porti con te dalle tue esperienze in grosse multinazionali come L’Oréal e Chanel?
Le mie esperienze di lavoro sono state grandiose, ne porto ricordi davvero importanti. Ho avuto la possibilità di fare, giovanissima, esperienze davvero grandi. Ovviamente questo mi ha anche insegnato a capire i miei difetti e a modularmi in un mercato del lavoro in cui spesso ci si trova, senza libretto di istruzioni, soprattutto quando si è giovani. Al livello più tecnico inoltre la preparazione che queste aziende ti danno, è immensa. Mi sono sempre sentita parte di qualcosa di grandioso.
Quali sono gli aspetti che più ti spronano nel tuo lavoro? Quali quelli più sfidanti?
Dico sempre che è una risposta un po’ da Miss Italia, ma è la verità e continuerò a dirla: aiutare le persone. Quella per me è la priorità e quello che mi fa alzare carica la mattina di accendere il pc. Oltre al fatto che mi sono creata questo lavoro a mia immagine e somiglianza, quindi mi diverto anche molto.
Una sfida che affronto, anche se potrebbe sempre strano, è per me quella dei social. Non mi sento molto portata, ma so che sono necessari e faccio uno sforzo per esserci e per continuare a farlo con sempre maggiore impegno.
Cosa consiglieresti a chi vuole rientrare nel mondo del lavoro dopo un periodo di fermo, dato dalla maternità, ma anche altro?
Di non pensare, appunto, di essere stati fermi. Non si sta fermi mai, siamo sempre in movimento.
Certe volte si sta più fermi a continuare a lavorare in un posto che non ci dà nulla, che a stare a casa a fare la mamma. Ogni esperienza ci insegna e ci lascia qualcosa. Non sono solo le competenze tecniche, quelle che contano nel lavoro, ma anche quelle che si acquisiscono nella vita.
Al livello più pratico invece consiglio di informarsi su come sia cambiato il mondo del lavoro o il ruolo specifico in questo periodo in cui si è stati fuori, aggiornarsi e rimettersi in pista con i giusti mezzi.
Quali sono i tuoi hobby fuori dal lavoro? Cosa serve ad un hobby per tramutarsi in lavoro?
Sono appassionata di musica italiana, ho una fissazione per il Festival di Sanremo (non parlo d’altro da dicembre a marzo), mi piace il teatro, una volta leggevo molto, adesso faccio più fatica. Il mio hobby più grande però rimane l’aperitivo! 😉
Un hobby può tramutarsi in lavoro quando qualcuno è disposto a spendere per quello che fai/vendi.
Io però non sono una grande fan del trasformare il proprio hobby in lavoro, perché l’hobby è una cosa che ci piace, ma non necessariamente vuol dire che siamo anche bravi in quella cosa.
Consiglio sempre di partire da quello che sai fare, più che da quello che vuoi fare.
E poi un hobby secondo me, se diventa un lavoro, smette di essere un hobby. Pure se mi pagassero per fare gli aperitivi, dopo un po’ mi stuferei di farli! 🙂
Buongiorno Dott. Soro. Ci può raccontare qualcosa in più sulla sua carriera professionale e formativa?
Intraprendo per vocazione la carriera militare, frequentando l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, dove conseguo la laurea in Scienze Politiche; da lì inizio un percorso nelle risorse umane all’interno dell’Aeronautica Militare, arricchendo il percorso formativo con ulteriori corsi sia nell’ambito HR della pubblica amministrazione che nell’ambito della comunicazione istituzionale. Un percorso durato 22 anni, che mi ha permesso di consolidare fondamentalmente i due ambiti, quello delle risorse umane e della comunicazione, che sono necessariamente complementari.
Oggi è Direttore del Personale di Insiel S.p.A., società ICT in house della Regione Friuli Venezia Giulia. Quali sono le difficoltà più grandi che si trova ad affrontare?
Insiel è appunto la società in house della Regione Autonoma FVG, il braccio operativo nel campo ICT, spaziando dal mondo delle infrastrutture fisiche (Data Center ad esempio), a quello della connettività (fibra ottica regionale e wi-fi pubblico), arrivando poi al mondo dei sistemi informativi veri e propri, dedicati al mondo delle autonomie locali, della Regione e della Sanità regionale. Un universo molto complesso, che in quasi 50 anni di storia della nostra Azienda, ha costellato di “digitale” la vita di tutti i cittadini di questa Regione.
Dal punto di vista HR, la difficoltà più importante è senza dubbio la necessità di preservare il grande patrimonio di competenze che sono state consolidate in tutti questi anni; l’Azienda ha sempre avuto un basso indice di turn over, in analogia a quello che capita nelle pubbliche amministrazioni, a questo si aggiunga una politica delle assunzioni che ha subito gli effetti dei diversi interventi che si sono susseguiti negli anni sul tema della “spending review”. Ora, finalmente, la rotta è stata invertita e grazie anche ad una strategia, politica ed aziendale di lungo periodo, siamo riusciti ad avviare importanti piani di sviluppo delle assunzioni.
Quest’anno, ad esempio abbiamo avviato le procedure di selezione per circa 75 profili!
Quali sono invece gli aspetti più motivanti e sfidanti del suo lavoro?
Il mondo HR è sfidante per definizione; ho parlato prima di vocazione per la vita militare, io sono un fervido sostenitore che anche per il mondo delle risorse umane sia necessario avere una forte vocazione, la voglia di ascoltare le persone e il desiderio di poter cambiare attivamente la vita delle organizzazioni, per il bene delle persone che ci lavorano. Spesso sentiamo parlare di “capitale umano”, più che di “risorse umane”, noi stiamo cercando di far diventare virale e pervasiva questa attenzione verso la persona. Ci riusciamo sempre? Forse no, ma almeno cerchiamo di farlo, coinvolgendo in questo anche le linee manageriali che sono, di fatto, la vera demoltiplica dell’azione HR sul terreno.
Come viene gestita l’elevata domanda di profili tecnici e informatici, rispetto all’offerta limitata?
I due anni della pandemia e questa “coda” complicata post emergenziale, che ci spinge verso una probabile recessione in “venti di guerra”, ha reso il mercato delle competenze ICT decisamente competitivo, forse più che nel recente passato; la delocalizzazione e la remotizzazione delle attività informatiche, con un lavoro ibrido sempre più spinto e non più legato alla fisicità di uno spazio ufficio definito, rende tutto più fluido e competitivo. Questo comporta a volte un maggior numero di candidati, ma alza notevolmente le aspettative, aspettative che spesso in una società pubblica, ancorata ovviamente a norme e regolamenti pubblici, non le permette di essere competitiva a sufficienza con le società informatiche di mercato.
Allora perché scegliere di lavorare in una società pubblica? Ne discutevo proprio in questi giorni con un giovane candidato, cercando di fargli comprendere che avvicinarsi ad una società pubblica come Insiel, deve presupporre, anche in questo caso, una “vocazione” verso il governo della cosa pubblica: l’obiettivo non è la massimizzazione degli utili ma l’efficientamento di processi amministrativi decisionali che consentano di erogare in continuità servizi sempre fruibili da cittadini, utenti ed operatori della PA. Forse la chiave di lettura è proprio questa, io lo chiamo il “paradigma del servizio”: sentirsi davvero dei “civil servant” che possano favorire e agevolare il cambiamento, in meglio, della Pubblica Amministrazione!
Per oltre 17 anni si è occupato di risorse umane all’interno dell’aeronautica Militare. Che bagaglio le ha lasciato quest’esperienza e come si è rivelata utile per il lavoro che svolge oggi?
Indipendentemente dall’uniforme che indossi, dalla giacca o dalla cravatta che porti, occuparsi di personale assume lo stesso significato ovunque; certamente l’esperienza all’interno delle Forze Armate ha una forte identità valoriale, che ti rende protagonista nel tuo piccolo dell’azione di una intera organizzazione. Forse è proprio questo il valore più grande che ti porti dentro fin da “piccolo”, la consapevolezza che il tuo operato, seppur limitato al contesto in cui operi, può fare da cassa di risonanza (positiva o negativa) per l’intera organizzazione cui appartieni.
Parlando di smart working, quali pensa e spera saranno gli sviluppi futuri?
Come spesso commento anche sui social o in occasione di confronti interni all’Azienda, siamo ormai (fortunatamente) al punto di non ritorno. In Insiel abbiamo adottato, forse tra i primi in Regione, un accordo emergenziale sul lavoro agile, che di fatto non ha mai previsto alcun limite nel numero delle giornate da poter svolgere al di fuori dei locali aziendali. Da circa 12 mesi abbiamo però cercato di far “riassaporare” anche la condivisione in presenza, chiedendo ai nostri dipendenti di frequentare le nostre sedi per almeno 5 giornate al mese. Si tratta di una piccola parte percentuale del tempo lavorato, che ognuno può gestire liberamente, anche in maniera frazionata o viceversa cumulativa. Certamente siamo agevolati dalla tecnologia, anche dalle stesse dotazioni informatiche dei nostri collaboratori oltre che dalle loro competenze informatiche, questo ha senza dubbio aiutato nel superare il fosso quando, ancora, eravamo tutti molto titubanti e dubbiosi sull’efficacia del lavoro agile/lavoro da remoto.
Il futuro è già scritto, o quasi, stiamo per sottoscrivere con i sindacati, aziendali e territoriali, un nuovo accordo aziendale sul tema del lavoro agile, che possa andare agevolmente oltre l’emergenza pandemica ma che, di fatto, mantiene gran parte dei contenuti dell’accordo emergenziale. Anche in questo caso è un nuovo “paradigma” da affrontare e che dobbiamo far diventare pervasivo all’interno dell’Azienda e a tutti i livelli dell’organigramma, un cambio di prospettiva che ponga la fiducia quale fulcro di tutta la nostra azione e che sposti l’attenzione da un lavoro scandito dai tempi del “cartellino” ai tempi di obiettivi assegnati e raggiunti!
Negli ultimi tempi si parla spesso di leadership e si è sottolineato che molti manager, non sono anche leader. Come definirebbe un leader e quali pensa siano le caratteristiche essenziali per esserlo?
Domanda molto complicata…non posso però che rispondere richiamando uno dei miei riferimenti su questo tema, ovvero il modello della leadership emotiva di David Goleman; nella mia visione riassume in poche pagine l’essenza del vero leader, che volta per volta utilizza i molti strumenti presenti nella sua cassetta degli attrezzi, cercando di non perdere mai di vista l’unicum tra “lavoratore” e “persona”, con una modalità bidirezionale di confronto e scambio continuo.
A suo parere che ruolo gioca il welfare nel mondo del lavoro attuale?
Dipende. Generalmente rifuggo da una visione del welfare intesa solo come “leva economica”, ovvero la visione essenzialmente riportata in maniera schematica all’interno di diversi CCNL. Welfare è un insieme di azioni e, soprattutto, comportamenti che come governance aziendale dobbiamo mettere in campo per rendere l’esperienza lavorativa il più coerente possibile con le aspirazioni personali. Un complesso bilanciamento che in parte può essere “monetizzato” con interventi mirati ma che in realtà deve comprendere tutti gli aspetti della vita di una Azienda.
Che consiglio darebbe a una persona che si vuole affacciare o si è affacciata da poco al mondo delle HR?
Ascoltare, ascoltare, ascoltare! E rendersi consapevoli che non si potranno mai avere sempre le risposte “giuste” subito, ma si costruiscono con umiltà ed empatia giorno dopo giorno!
Ciao Guido, grazie per il tuo tempo e la tua disponibilità. Mi piacerebbe sapere quale percorso si cela dietro – per riprendere le parole della tua headline su LinkedIn – all’Amichevole IT Recruiter di quartiere di Adecco che sei oggi.
Ciao Giada, grazie a te! Il mio percorso non è decisamente lineare: dopo quasi 10 anni in una grande azienda in ambito Customer Care, ho deciso di approfondire il settore nel quale sono ora, ovvero il mondo delle Umane Risorse (citando il buon Osvaldo Danzi) ed in particolare del recruiting in ambito IT. Nel corso degli anni sono cresciuto professionalmente, passando dall’essere un Customer Care Manager fino a Head of HR in una azienda di ingegneria. Attualmente, in Adecco, ricopro il ruolo di Recruiting Consultant nella nostra divisione Digital & Technologies di Roma.
Da dove nasce il tuo interesse per il mondo delle HR?
E’ una “spinta” che ho sentito sin dal percorso universitario, in qualche modo: dopo la Laurea in Scienze della Comunicazione ho seguito un master in CSR & Management, con una tesi sulla SA 8000. L’etica del lavoro ed i temi affini hanno sempre avuto un importante ruolo nel mio percorso professionale, e spinto da questi valori la scelta di lavorare nelle HR è stata naturale.
Cosa ti ha spinto a specializzarti nel settore IT, ambito tra i più sfidanti e nel quale c’è una forte concorrenza?
Sarò onesto, da un lato un pò di sano “egoismo” professionale (o potremmo anche chiamarla lungimiranza) perché il settore IT in questo momento è pieno di opportunità che di sicuro nei prossimi anni non si esauriranno, anzi. Inoltre, la tecnologia e l’innovazione sono sempre state cose che mi hanno affascinato sin da ragazzino (ed anche la mia fortissima anima nerd da gamer ha spinto naturalmente per il settore).
Come hai visto cambiare il mondo e il mercato del lavoro in questi ultimi due anni segnati dal Covid?
Il cambio è stato radicale. Con il lockdown, i distanziamenti, le nuove regole sanitarie e logistiche le aziende, i professionisti e tutti i vari stakeholder hanno necessariamente dovuto attivare delle nuove strategie lavorative (il lavoro da remoto, per dirne una). Una novità per tantissime realtà imprenditoriali che secondo me è inevitabile, e mi dispiace che molte aziende stiano tornando “indietro” pur essendoci numeri, report e statistiche che indicano inequivocabilmente che il lavoro da remoto non intacca la produttività, anzi!
A tuo parere quanto contano le soft skill in un processo di selezione?
Ultimamente ho molto rivalutato le soft skills, sarò onesto. Tempo addietro le reputavo competenze “copia-incolla” che chiunque scriveva nel proprio CV senza un minimo di raziocinio o riflessione. Ho invece imparato che sono fondamentali. Proprio nel mio settore ad esempio, quello IT, dove si ragiona sempre e solo in termini di competenze “hard” (linguaggi di programmazione, framework, metodologie e poco altro) le soft skill fanno davvero la differenza durante il colloquio, sia conoscitivo che tecnico. La capacità di lavorare in un team totalmente da remoto, magari sparso in tutta Italia, il saper comunicare, il saper trasferire le proprie competenze magari ad un profilo junior, saper negoziare il proprio compenso sono competenze fondamentali in un settore estremamente competitivo.
Cosa consiglieresti a chi vorrebbe affacciarsi (o si è appena affacciato) al mondo delle Risorse Umane?
Sicuramente la formazione, sia teorica che pratica (magari con un Master in ambito HR o verticale sul recruiting). Questo lavoro è estremamente sfaccettato e bisogna avere solide basi (gestire i colloqui, i candidati, i clienti, il team, la burocrazia, le contrattazioni economiche, etc).
Inoltre, creare un network è fondamentale! Costruire relazioni, imparare da chi fa questo lavoro da tanto, creare una propria credibilità online, ad esempio su Linkedin.
In ultimo, non per importanza, accettare il fallimento. Un candidato che rifiuta un’offerta, che fa ghosting, l’azienda cliente che dopo mesi di lavoro chiude la posizione e così via. Lavorare con un “sano distacco” emotivo aiuta a non demotivarsi.
Nel tempo libero a cosa ti dedichi? Da cosa ti lasci ispirare?
Tempo libero? Cos’è? Ho due bimbi piccoli, ne ho davvero pochissimo! In quelle poche ore che ho a disposizione ho hobbies abbastanza “standard”: libri, serie tv e qualche videogame (da mobile, le TV sono tutte sempre “occupate” ). Da Luglio, una volta al mese, di sera siamo live su Twitch assieme ad altri colleghi/e di altre aziende e developer e parliamo di lavoro nel settore IT e molto altro. Lo possiamo considerare un hobby? 😊
Quali pensi saranno le sfide che i professionisti del settore HR dovranno affrontare nel prossimo futuro?
A mio avviso la sfida più grande non è tanto nella ricerca delle persone ma nella cosiddetta retention: soprattutto i profili tecnici hanno accesso ad una marea di offerte di lavoro come mai prima d’ora, c’è quindi l’imbarazzo della scelta.
Una employee experience seria, strutturata ed ingaggiante secondo me è la sfida più grande per le aziende: capire come trattenere i talenti, andando oltre la mera retribuzione e tenere vivo “l’amore” per la propria azienda.
Giovanni Tavaglione, coach internazionale con 23 anni di esperienza, fondatore e direttore di I.R.A. – Inner Rainbow Academy, autore, editore e partner del Team Petrosyan, dove in particolare supporta il campione del mondo Giorgio Petrosyan per la preparazione mentale ai match.
Ciao Giovanni, grazie per la disponibilità, è un piacere e un onore poterti intervistare. Per chi ancora non ti conosce, puoi raccontarci qualcosa in più su di te e sul tuo percorso?
Piacere mio Giada! Grazie mille a te per l’intervista!
Il mio percorso nasce dall’amore totale per ciò che ho la fortuna di poter fare e che ho sempre sognato: aiutare le persone ad ascoltarsi e a valorizzare il proprio talento in azienda, nello sport e nel sociale. Per riassumere potrei dirti che il mio percorso sembra un vaso kintsugi dove ho imparato ad incollare le crepe con il materiale più prezioso che conosco: l’ascolto! Ho una donna meravigliosa che è sempre al mio fianco insieme ai nostri 5 figli. Amo allenarmi marzialmente al mattino presto per prendermi cura del corpo con una delle più grandi passioni della mia vita: le arti marziali! Il tempo della giornata mi vola e mi rendo conto che, con il passare degli anni, la luce negli occhi aumenta: secondo me un termometro fondamentale per monitorare la nostra salute!
Ho letto che fin da bambino sei sempre stato interessato all’ascolto e all’aiuto del prossimo. Ti immaginavi già allora che saresti diventato il professionista che sei oggi?
Fin da piccolo sognavo esattamente la vita che sto vivendo. Tanti si guardano indietro, magari con dei rimpianti e con dei sensi di colpa. Per quanto mi riguarda so di aver costantemente dato tutto per quello in cui credo e ho visto nelle migliaia di sacrifici fatti, il piacere di seguire fino in fondo ciò che la mia anima mi ha chiesto, mi chiede e continua a chiedermi.
Sei il fondatore di I.R.A. – Inner Rainbow Academy. Apprezzo la scelta del nome e l’idea di un arcobaleno all’interno delle persone. Da dove nasce I.R.A. e che percorsi formativi offre?
I.R.A. (Inner Rainbow Academy) nasce da un mio sogno nel cassetto: creare un luogo dove le persone possano darsi il permesso di andare incontro al proprio talento e dargli l’opportunità di manifestarlo.
Ho sempre amato la città di Udine perché avendoci lavorato fin da molto piccolo ho ritrovato quei valori che sento miei: la coerenza fra dire e fare, la voglia di rimboccarsi le maniche, la concretezza e l’integrità!
La Inner Rainbow Academy è il luogo dove un atleta professionista può prepararsi per il match più delicato dell’anno, dove si organizzano eventi ad alto impatto aziendale, dove si può lavorare con il coaching personalizzato davanti ad uno specchio, dove un imprenditore può scaricare le proprie tossine con i guantoni e un sacco fino al farsi la doccia per rigenerarsi!
La Inner Rainbow Academy forma i Coach e i Mentor del futuro, genera training personalizzati per le aziende per lo sviluppo delle competenze, dà vita ad eventi mirati allo sviluppo di un patto di squadra, sostiene a livello individuale imprenditori, manager, atleti, medici, operai e tutti coloro che vogliono lavorare su di sé nei momenti dove il livello di stress è più alto e dove è necessario farsi trovare lucidi quando la pressione sale.
Ti interfacci con realtà aziendali e atleti di tutto rilievo, oltre all’ambito sociale. C’è un trait d’union che lega questi ambiti, a prima vista molto differenti tra loro?
Azienda – Sport – Sociale per me sono 3 connettori quotidiani. Ti faccio un esempio: i libri scritti magari con campioni dello sport e imprenditori sui temi nevralgici della consapevolezza comportamentale hanno poi dato supporto al CRO di Aviano nell’ambito della ricerca sul cancro o ad esempio alla Terapia Intensiva Neonatale del Burlo Garofolo.
Ogni giorno per me questi 3 ambiti si uniscono con azioni che mi permettono di andare incontro alla mia missione: dare tutto quello che ho per aiutare le persone a scoprire quanta luce possono generare attraverso la porta magica dell’ascolto!
Qual è lo scoglio più grande che trovi nel momento di passaggio, come dici tu, lungo il ponte Dire-Fare?
Dire-Fare per me diventa uno scoglio solo quando non si ha chiaro per cosa si lotta ogni giorno. Imparare ad ascoltare le mie emozioni, ha significato nel tempo aprire la porta dell’intuito per scoprire la mia visione, per farla poi diventare obiettivi e piani d’azione. Lo scoglio dire-fare si manifesta ogni volta in cui una persona lavora su obiettivi in cui in fondo in fondo non crede.
Quindi per me dire-fare significa:
parlare solo quando sono sicuro
evitare di generare false aspettative
far parlare i fatti
prendermi il mio tempo per ascoltarmi.
Nei tuoi 23 anni di esperienza come hai visto cambiare le insicurezze, le ansie e le fragilità delle persone?
Per imparare ad osservare i cambiamenti delle insicurezze, delle ansie e delle fragilità delle persone, ogni giorno per me è fondamentale riconoscere le mie. Negli ultimi anni tante apparenti certezze sono vacillate e noi tutti inevitabilmente abbiamo fatto i conti con fragilità che tante volte rischiamo di evitare o di negare. Ritengo quindi che questo periodo possa essere un’occasione enorme per imparare a dare dignità di esistere alle proprie emozioni e alle proprie fragilità in quanto possono diventare una porta d’ingresso straordinaria che ci fa entrare nella stanza dei nostri reali bisogni del ‘qui ed ora’.
A tuo avviso che ruolo giocano i social network nella ricerca di sé stessi e nell’attivazione di un cambiamento, sia in positivo che in negativo?
Ritengo che i social network rappresentino un grande rischio e una grande opportunità a seconda di come vengono utilizzati. Diventano un potenziale narcotico compensativo quando la persona ha una consapevolezza comportamentale bassa, ma allo stesso tempo possono diventare un’occasione straordinaria di sublimazione e di ricarico energetico se la persona è in grado di comunicare con sé stessa e con gli altri.
Che consiglio daresti a una persona che si sente in un momento di ‘blocco’ nella vita personale o professionale? Qual è il primo passo da fare?
Il primo consiglio che darei ad una persona che vive un blocco è quello di dare un nome all’emozione che prova, localizzare nel corpo la parte dove la vive in modo più evidente e scriverla nel proprio diario di bordo perché è proprio da questa piccola azione che quel blocco nel tempo può diventare una risorsa impensabile.
Per te lo sport ha un ruolo fondamentale. Dove trovi la motivazione per continuare, anche quando risulta difficile o hai poco tempo a disposizione?
Lo sport quotidiano per me è un bisogno prima di tutto: è come bere, mangiare e dormire. Quindi anche quando le forze vengono meno, emerge il piacere di alzarmi per fare qualcosa che amo e che so mi darà energia per affrontare la giornata e nutrire il corpo.
Sei anche autore di due libri, “Un viaggio Straordinario”, sul coaching e mental training con il maestro delle arti marziali, Giorgio Petrosyan, e “LockMind” sulla gestione dello stress in tempi di pandemia. Hai qualche altro testo in cantiere?
I prossimi libri sono: La Voce del Silenzio (pronto per la stampa) che entra nel cuore della storia di un imprenditore siciliano che ha seguito di un imprinting molto duro ha perso la voce e trova nel perdono uno strumento magico per imparare ad amarsi!
Sto lavorando al libro Risorse Umane: Mission IM-POSSIBILE con Direttori del Personale di altissimo livello per scoprire l’importanza di ritrovare il coraggio di affrontare sfide complesse per amore di ciò in cui si crede, dimostrandolo attraverso i fatti.
In più in ognuna delle tante Academy attive a livello nazionale e internazionale realizzeremo i libri costruito con ogni azienda per dare valore ad un vero e proprio Viaggio Straordinario che nei testi riveleranno delle storie emozionanti da lasciare con gli occhi spalancati per molto tempo!
Da cosa ti lasci ispirare?
Mi lascio ispirare dal momento presente che ogni giorno mi sorprende e mi regala la gratitudine di poter vedere, respirare, sentire e ascoltare!
Grazie Giovanni.
Alla prossima intervista per Giada’s Project, intervisti agli esperti delle HR e non solo.
Buongiorno Piero, è un piacere e onore poterti intervistare. Ci racconti qualcosa in più su di te e sul tuo percorso professionale?
Buongiorno Giada, grazie per avermi coinvolto in Giada’s Project. Che dire su di me… dopo la laurea in psicologia del lavoro e delle organizzazioni, ho conseguito due master di specializzazione in selezione e formazione del personale che sono stati il trampolino di lancio verso questo meraviglioso lavoro. Ho collaborato con società di consulenza, sono stato in azienda come HR Manager e consulente, ho avuto esperienza sia all’interno di PMI che in multinazionali dove ho progettato e realizzato sistemi di gestione delle risorse umane dal reclutamento, alla formazione, alla valutazione e gestione del personale. Qualche anno fa ho scoperto il piacere della scrittura e della saggistica cosa che mi ha permesso di dare vita a Pillole HR, il blog dove scrivo settimanalmente che conta ormai qualche centinaio di articoli, e di pubblicare alcuni manuali di psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Insomma, ho fatto molte esperienze, diverse tra loro ma complementari che mi hanno permesso di sviluppare una professionalità a tutto tondo.
Perché le HR e qual è l’area delle risorse umane che più ti appassiona?
Il lavoro nelle risorse umane è arrivato dopo la passione nata durante l’Università quando diedi l’esame di psicologia del lavoro, da lì è stato un crescendo di approfondimenti, di esperienze sul campo e di tante, tantissime domande ai senior con cui lavoravo. All’inizio della mia carriera ho avuto la possibilità di conoscere Spaltro e di lavorare con Majer e di interagire molti di quelli che consideravo i giganti della psicologia del lavoro in Italia. Con loro ho fatto esperienza sul campo e da loro ho ricevuto moltissimi stimoli e tante risorse. Come puoi intuire, in un ambiente così stimolante dal punto di vista intellettuale, la passione che era nata all’università non poteva che crescere e riversarsi nel lavoro che ho scelto.
I maggiori stimoli però me li hanno dati sempre le persone che lavorano in azienda. Non intendo solo manager e imprenditori ma anche i dipendenti, i collaboratori che creano spesso involontariamente meccanismi comportamentali e meccanismi relazionali che se non vengono gestiti bene possono essere deflagranti per l’organizzazione ma che per uno psicologo sono davvero interessanti. Il desiderio di capire i meccanismi che soggiacciono a qualunque scelta, ai comportamenti, alle motivazioni va poi di pari passo con la passione per lo studio e la ricerca, due aspetti che riempiono la vita di chi si occupa di persone e organizzazioni e che, nel mio caso, ha portato alla pubblicazione di alcuni manuali di psicologia pratica. Non posso dire che c’è un solo aspetto che mi appassiona, posso però dirti che il bello di questo lavoro è che non smetti mai di imparare perché c’è sempre qualcosa che ti stupisce.
Da bambino cosa sognavi di fare ‘da grande’?
Sognavo di fare l’inventore, strada che ho abbandonato dopo che ho quasi dato fuoco alla casa. Per un periodo ho pensato di fare l’avvocato, era l’adolescenza, e meno male che ho desistito ancor prima di iniziare. Se c’è un mestiere che non ho mai pensato di fare da grande era quello dello psicologo del lavoro, anche perché non sapevo neppure che esistesse un lavoro come questo. Devo dire però che, a pensarci bene, occuparsi di HR in azienda comporta sia le competenze dell’inventore come il problem solving, la capacità di capire come andranno le cose prima ancora di iniziare, la capacità di programmazione e progettazione, e pure quelle tipiche dell’avvocato come la dialettica, la conoscenza del diritto, capacità di mediare e quella di capire le organizzazioni. E ovviamente, visto che hai a che fare con le persone, aver studiato psicologia mi ha aiutato tantissimo.
Si sta parlando molto di quiet quitting, un fenomeno per alcuni versi già noto, ma forse diverso per altri. Che cosa ne pensi? Cosa dovrebbero fare le aziende per aumentare l’engagement dei propri collaboratori?
Su questo argomento ho scritto recentemente un articolo. Il quiet quitting non ha nulla di nuovo è solo l’ennesimo inglesismo con cui si cerca di fare sensazionalismo mediatico chiamando in maniera diversa un fenomeno ben noto. Pensiamoci bene, il quiet quitting descrive la tendenza a fare il minimo indispensabile. Chiunque abbia fatto esperienza d’azienda sa che questo non è una novità, ognuno di noi potrebbe fare mille esempi di vita vissuta, il collega che alle 17 fugge così velocemente che potrebbe vincere i 100 metri alle olimpiadi, quello che fa finta di non sapere che doveva fare anche altro ma siccome nessuno glielo ha detto non lo ha fatto oppure quello che semplicemente non si prende la responsabilità di andare oltre a quanto previsto, disposto, ordinato. Non ditemi che è una novità. L’unica cosa nuova è che oggi ci si chiede come mai e questo è corretto. In un momento che vede una scarsità di offerta causa una piena occupazione che non si vedeva dagli anni ’70 e una domanda importante c’è da chiedersi non solo come attrarre persone, ma anche come tenersi quelle valide, da qui nascono alcuni spunti di riflessione che si traducono con la parola engagement una di quelle parole di cui si è abusato e che erano contenitori vuoti, ma ora devono essere pronunciate con un significato nuovo e significante. Trascurare il coinvolgimento delle persone significa partire zoppi ed essere eliminati a metà della corsa.
Collegandomi per alcuni aspetti alla domanda precedente che ruolo hanno oggi la valutazione delle risorse, l’employee retention e l’employer branding? Come possono essere gestiti anche da piccole realtà con budget limitati?
Argomenti interessanti e correlati, cerchiamo di metterli in linea. La valutazione della performance è forse lo strumento cardine su cui basare le politiche di gestione del personale. La domanda però è: quante aziende hanno strumenti anche home made di valutazione? Pochissime, eppure i premi di risultato vengono erogati, spesso a pioggia con il risultato che chi è un quiet quitter continuerà ad esserlo, chi non lo era lo diventerà. Le aziende, anche piccole, non possono più esimersi dall’implementare questo strumento e, se sai quello che fai, ci vuole davvero poco per crearne uno ad hoc.
Politiche di attraction: cosa do al mio personale che gli altri non danno? Quali sono i motivi per cui le persone dovrebbero venire a lavorare nella mia azienda? Quali sono i benefit che erogherò (welfare, premi di risultato, benefit, ecc.)? Anche qui ci si pensa poco, si dà per scontato che le persone sappiano quello che facciamo e invece non è così perché spesso le imprese comunicano male. Arriviamo quindi all’employer branding: come comunico quello che faccio? A chi lo comunico? Lo faccio bene? Raggiungo il mio pubblico in maniera efficace? Non basta un articolo sul giornale, oggi le imprese devono essere presenti sui social e comunicare in maniera efficace, non sono argomenti da cui si può prescindere. Come sempre c’è chi lo ha capito e si sta muovendo con ottimi risultati, chi non lo ha capito subirà il mercato invece di cavalcare l’onda. In un mondo del lavoro completamente rivoluzionato dove si fa tanta fatica a trovare persone, investire in comunicazione ha un ritorno che si misura in risparmi di costi sulla ricerca e selezione, sul talent retention e sul calo di turnover. Oggi sono questi i veri ritorni sull’investimento.
A tuo avviso cosa può insegnare il marketing alle HR? Che rapporto hai con il marketing e la comunicazione?
Ho un ottimo rapporto, nel senso che ne riconosco il valore e cerco sempre sinergie con il reparto marketing. Come dicevo la comunicazione è importante e purtroppo molto spesso gli HR comunicano male o non comunicano affatto, ma non dobbiamo fargliene una colpa, semplicemente non è il loro lavoro. In un mondo sempre più iper specializzato pensare che un HR si occupi direttamente della comunicazione esterna è follia un po’ come pensare che chi si occupa di marketing faccia anche l’HR, in entrambi i casi abbiamo il preludio del disastro. Però se parliamo di comunicazione, l’HR deve avere almeno un’infarinatura.
Indispensabile oggi è l’uso dei social network, l’HR che non li conosce o non li usa non è un vero HR. Stare sui social significa saper scrivere un post e saper attrarre le persone comunicando nella maniera giusta. Per la comunicazione esterna è indispensabile la sinergia con il reparto marketing dove i due asset collaborano con una comunicazione congiunta che ha sia il fine di promuovere il brand sia quella di attirare la curiosità dei decantati talenti, senza dimenticare che una comunicazione HR-MKT fatta bene tiene conto dei colleghi degli altri reparti e li coinvolge attivamente, in quest’ultimo caso serve un giusto bilanciamento tra le relazioni che l’HR è riuscito a creare in azienda unitamente alle doti comunicative del marketing e un grande gioco di squadra tra i due reparti. Sono certo che nel prossimo futuro sarà sempre più frequente vederli lavorare insieme.
Tra qualche settimana inizierà la quarta edizione di #HRO 2022, una interessantissima convention con speaker di altissimo livello e numeri sempre in aumento, alla quale mi sono già iscritta. Cosa ti aspetti da questo evento?
Mi aspetto quello che mi aspettavo gli anni scorsi, di ascoltare persone che hanno molto da dire, di confrontarmi con professioniste e professionisti, donne e uomini d’azienda disponibili a raccontare la loro esperienza e a darci spunti importanti da portare in azienda. #HRO è nato come momento di stimolo, di contaminazione di saperi e di professionalità. Chi ha partecipato si è sempre portato a casa qualcosa e non intendo il solito gadget ma idee, spunti, riflessioni. #HRO2022 deve essere anche un momento in cui le persone si confrontano, gli anni scorsi non sono mancate le domande dal pubblico e anche quest’anno ci sarà l’occasione per un confronto diretto. Questo secondo me deve essere #HRO.
Un altro progetto che stai seguendo è il Master in Innovative HR Management & HRBP di H-Demy, un percorso formativo altamente professionalizzante, riconosciuto dal MIUR e, punto essenziale e unico, improntato sulla pratica, aspetto non scontato, visto che molti altri corsi si rivelano prettamente teorici. Ci sveli qualcosa in più?
Lo definirei un Must Have. Come tutti ho fatto molti corsi di approfondimento e di specializzazione, ogni volta cercavo di iscrivermi a percorsi pratici perché ero alla ricerca di strumenti che avrei potuto utilizzare nel mio lavoro. Il più delle volte ci sono riuscito, altre no. Sono partito da una necessità che ho sempre avuto e che ho scoperto poi essere comune a molti colleghi. Sono partito da qui, cercando di capire quali competenze serviranno al HR di domani, ho individuato le materie, cercato docenti che avessero come il desiderio di trasmettere quegli strumenti che faticosamente tutti noi abbiamo racimolato in decine di corsi. Volevo creare un percorso che racchiudesse in sé quello che era necessario portare in azienda. Quando ho terminato il programma mi sono confrontato con HR manager e CEO delle imprese e tutti mi hanno detto “È proprio quello che serve ad un’azienda”. Questo mi ha fatto capire di essere sulla strada giusta, ma ho voluto dare di più cercando anche l’accreditamento universitario.
È l’unico percorso che ti insegna facendo, ad esempio quando ti capita di imparare a strutturare un piano di welfare da chi li fa ogni giorno, creare un vero percorso di D&I, imparare ad utilizzare LinkedIn come un vero social recruiter o ad utilizzare i dati da una vera data analyst, il problem solving utilizzando il gioco del poker, la gestione del team direttamente dal comandante dell’Amerigo Vespucci e tutto nello stesso corso? Ci sono moduli che non troverai in nessun altro corso, ad esempio hai mai visto un percorso di formazione in cui un sindacalista ti insegna la contrattazione sindacale simulandone una con un avvocato giuslavorista e coinvolgendoti direttamente? O come strutturare una sanzione disciplinare partendo dal caso pratico? È stato così apprezzato che abbiamo avuto da subito molte richieste di informazioni e i primi iscritti e, essendo a numero chiuso, contiamo di esaurire i posti entro dicembre per iniziare a gennaio 2023 a formare i primi Innovative HR Manager and HRBP.
Giada’s Project è un progetto divulgativo con l’obiettivo di raccontare le HR e il mondo del lavoro a 360°, andando a toccare tutti i settori e professionisti collegati e correlati. Impossibile allora non parlare di digital transformation, analytics e innovazione. Impossibile non farlo proprio con chi opera in questo ambito, Andrea Bez, Account Delivery Executive di Microsoft.
Ciao Andrea, piacere di ritrovarti! Per chi non ha ancora avuto modo di conoscerti, ci racconti qualcosa in più su di te?
Ciao Giada, piacere mio. Ho iniziato il mio percorso umano e professionale a Udine – è qui, ai confini dell’impero, che mi sono interessato alle tematiche della trasformazione digitale. Durante gli anni della laurea in Economia, argomenti come cloud e Industry 4.0 stavano creando grandi auspici, e ho deciso di buttarmici a capofitto. Prima con ruoli di crescente responsabilità commerciale presso beanTech, un system integrator locale, e poi nell’ambito della delivery di grandi progetti trasformativi in Microsoft.
In un tweet, dopo diversi anni in questo settore mi definirei un sentimentale dell’innovazione (appassionato a un quadro tecnologico in continua evoluzione), ma profondamente ancorato al business (senza, quindi, perdere mai di vista i risultati).
Ti definisci un sostenitore della trasformazione digitale. Dove pensi si arriverà in futuro? Quali sono gli aspetti che ti stimolano di più e quali, se ce ne sono, quelli che ti spaventano?
La trasformazione digitale è diventata una leva chiave della competitività aziendale. Oggi si parla di cloud con decisori apicali e C-Level. Non penso di esagerare, quando affermo che è sempre di più il “dato” ad essere il punto focale del business, dal supporto alle decisioni, al lancio e valutazione di un prodotto o di un servizio.
Il futuro in un certo senso è già qua: si guarda con entusiasmo ed aspettativa, per esempio, al metaverso – l’idea di un’interazione “seamless” tra mondo reale e virtuale mi affascina molto. Evoluzioni impressionanti sono avvenute nel campo dell’intelligenza artificiale, e l’aspetto entusiasmante è che questi strumenti sono sempre più alla portata di utenti con un’estrazione non necessariamente informatica, quelli che chiamiamo “citizen developer”.
Sono ottimista sull’impatto positivo che potrà avere la trasformazione digitale sull’ambiente – la mia personale scommessa è che le tematiche inerenti la sostenibilità diventeranno prioritarie nella crescente complessità del nostro ecosistema.
Guardo con una certa apprensione al fenomeno che viene talora definito come “digital dark age” – in un mondo in cui l’informazione è liquida e sovrabbondante, il rischio è che nel tempo parti di essa diventino “scarse” per ragioni che spaziano dall’obsolescenza dei supporti fisici al rumore di fondo.
Parlando sempre di digital transformation, quali sono i problemi più frequenti che ti trovi o ti sei trovato ad affrontare?
Parto dal presupposto che la definizione di problema è un po’ vaga – ti propongo piuttosto il concetto di rischio, positivo (opportunità pertanto da cogliere) o negativo (da mitigare).
Gli aspetti cruciali, e spesso ignorati, che espongono al rischio di insuccesso nella trasformazione digitale sono a mio avviso primariamente culturali e organizzativi. Spesso si soprassiede su tematiche come la gestione del cambiamento, che spazia dall’adozione degli strumenti ad una piena comprensione dello skill gap impattante le risorse umane. Banalmente, non tutte le strutture organizzative hanno la capacità di affrontare progettualità complesse, che hanno connotazioni primariamente di processo, oltre che tecnologiche.
D’altra parte, ho vissuto in prima persona occasioni nelle quali la trasformazione digitale è stata il volano per una radicale rivoluzione del modello di business: per esempio, nell’ottica della servitizzazione, nel comparto manifatturiero.
A tuo parere che legami ci sono e che sinergie possono nascere tra digitale, IT e HR?
Il mondo delle risorse umano è permeato dal digitale. Il nostro CV potrebbe essere stato esaminato in fase di pre-screening proprio da un’intelligenza artificiale! Al netto di esempi come questo, vedo due aspetti fondamentali di interazione e reciproco arricchimento tra questi ambiti.
Il primo, è l’impatto positivo che porterà, e sta già portando, il digitale nella semplificazione dei processi e nell’interoperabilità dei sistemi legacy in ambito HR.
Il secondo, è il dovere, da parte dei moderni HR manager, di guardare con crescente attenzione a un mondo del lavoro che sta cambiando radicalmente. Da un lato, bisognerà ovviare a uno skill gap obiettivamente preoccupante, dove parte della forza lavoro rischia di essere spiazzata dalla crescente domanda di competenze informatiche. Dall’altro, le aziende dovranno essere in grado di trattenere adeguatamente i talenti in un mercato del lavoro più dinamico, e orientato a paradigmi di lavoro flessibile.
Hai fatto anche il docente all’Università degli Studi di Udine dove hai parlato di HR Analytics. Com’è stato tornare nella propria università, seduto dall’altro lato della cattedra?
Va detto che dietro la cattedra sono rimasto seduto davvero poco, tendo a camminare molto quando parlo… sciocchezze a parte, è stata un’esperienza molto stimolante.
Mi ha fatto piacere interagire con studenti interessati a una tematica tutto sommato non banale per dei non addetti ai lavori. Il confronto con esperienze professionali diverse è a mio avviso una grande opportunità da cogliere durante un percorso formativo.
Qualora anche un paio dei partecipanti al corso si fossero incuriositi all’argomento analytics, lo riterrei un successo!
C’è una persona che è stata la tua fonte di ispirazione lungo tutta la tua carriera?
Non vorrei darti una risposta stucchevole, viviamo in un mondo che soffre l’ansia continua della ricerca del modello, dell’ispirazione… a mio avviso come esseri umani abbiamo semplicemente il dovere di sentirci studenti tutta la vita. Sta al singolo cercare con la giusta umiltà mentori in ogni fase del proprio percorso, e non è necessario scomodare i grandi capitani d’azienda o personaggi del passato: può essere un imprenditore, un manager-coach, o una collega intraprendente e in gamba.
Enzo Passaro, formatore, esperto di public speaking e neurolinguistica, acceleratore di competenze relazionali e autore di ‘Easy Public Speaking’.
Buongiorno Enzo, ti ringrazio davvero molto per la tua disponibilità. Apprezzo molto i tuoi contenuti ricchi di qualità e mai scontati. Per chi non ti conoscesse, ti chiedo di raccontarci qualcosa in più su di te e sul tuo percorso professionale.
Buongiorno Giada e buongiorno al tuo pubblico! In aula mi piace presentarmi così: sono un docente e mi occupo in particolare dello sviluppo delle competenze delle persone attraverso gli strumenti essenziali della Neuro Linguistica che declino, in particolare, nell’efficientamento dei sistemi di relazione interpersonale e nella conduzione e moderazione di eventi. Più di recente ho sviluppato una notevole passione per la Neuro Leadership, arrivando ad essere uno degli undici trainer in Italia ad aver frequentato l’unico percorso formativo a tema organizzato da INNEL®, l’Istituto Nazionale di Neuro Leadership.
Ti descrivi con una definizione bellissima ‘artigiano della parola’. Da dove proviene questa espressione?
Proviene da un mio mentore, una persona che mi ha insegnato molto quando ero poco più che un apprendista in questo campo. Apprezzava molto la mia prontezza linguistica, la mia capacità di elaborare testi scritti o a voce in maniera molto rapida e coerente con il contesto o la richiesta. Era un uomo minuto, che amava il basso profilo, uno di quelli che si era fatto da solo: con una quinta elementare era arrivato ad essere HR Manager di una multinazionale da 13.000 dipendenti! Un giorno mi disse proprio così:
«Enzo, tu sei un artigiano della parola»
e da allora lo porto con me per il senso del “fare” che avvolge.
Dove hai scoperto l’amore per il public speaking e la neurolinguistica?
Parlo in pubblico, come racconto anche nel mio libro “Easy Public Speaking” edito da Zandegù, da quando il parroco dell’oratorio che frequentavo da piccolo mi affibbiò, letteralmente, il microfono e mi intimò di condurre la tombola natalizia che organizzava per i genitori e i nonni di noi ragazzi. Rimasi allo stesso tempo spaventato e affascinato da quella situazione che le circostanze mi hanno permesso di rivivere e riscoprire fino a quando ho deciso di frequentare corsi specifici. Tra questi, e non poteva essere altrimenti quando si ha a che fare con questa materia, ne ho seguiti parecchi sulla Programmazione Neurolinguistica e sull’applicazione dei linguaggi nei diversi contesti e attraverso i vari mezzi di cui disponiamo. È stata proprio l’acquisizione delle cosiddette competenze trasversali, le soft skills, a stimolare la svolta professionale verso la formazione e quindi, inevitabilmente direi, verso il mondo complesso ed affascinante delle Risorse Umane.
Parlare in pubblico crea spesso qualche preoccupazione. Cosa serve per acquisire maggior sicurezza e consapevolezza?
Serve innanzitutto uscire dal falso messaggio secondo il quale sia possibile gestire le emozioni, ansia e preoccupazioni comprese. Le emozioni, infatti, precedono dal punto di vista neurale qualsiasi approccio logico tentiamo di applicare. Inoltre, le stesse emozioni rappresentano il nostro vero “sé” la nostra natura, ed è quindi controindicato rinnegarla, magari fingendosi qualcun altro o qualcos’altro. Piuttosto, suggerisco ai miei corsisti di rivelare come si sentono e cosa provano in apertura di un discorso per liberare la tensione che avvertono e darle così una forma più empatica che le persone in platea accolgono con favore proprio perché, a parti invertite, avvertirebbero le medesime sensazioni! Più in generale, teniamo bene a mente che si tratta di un’esperienza già fatta chissà quante volte da piccoli, a scuola, in famiglia o tra amici.
Che ruolo hanno le emozioni in una interazione?
Le emozioni sono il sale di qualsiasi interazione. Dal punto di vista semantico le parole “emozione” e “motivo” hanno la stessa base: si parla di qualcosa che viene da dentro ed esce, naturalmente e spontaneamente, in tutti e tre i livelli della comunicazione umana. Il nostro linguaggio del corpo, la nostra voce e le nostre parole sono lo specchio fedele di ciò che stiamo provando, del “cosa” stiamo dicendo alla persona davanti a noi e di ciò che le arriva per primo, ovvero il “come”. Un buon livello di consapevolezza emotiva, che chiunque può allenare o approfondire, è la premessa indispensabile per avere interazioni efficaci, in grado di portare beneficio ai diversi attori sul palco e di conseguenza all’intera organizzazione.
A tuo avviso come si coniugano la neurolinguistica e il public speaking con le Risorse Umane?
Per rispondere alla tua domanda, basterebbe pensare alle riunioni interne in cui siamo chiamati a presentare un progetto o quando dobbiamo negoziare con altre figure un accordo, una soluzione o un possibile compromesso. In questi casi e in tutte le interazioni possibili entrano in gioco abilità relazionali come l’ascolto attivo, le domande aperte e chiuse, i feedback di qualità, l’utilizzo di parole assertive che sostituiscano tutti quei vizi verbali che ci portiamo dietro come un fardello, la calibrazione e il modellamento dei linguaggi nel rispetto della personalità propria e altrui, i toni di voce empatici, una prossemica adeguata, la lettura del linguaggio non verbale di chi abbiamo di fronte e la gestione corretta del nostro.
Chi si occupa di Risorse Umane è in una condizione di costante scambio perché riceve tantissime informazioni e richieste che deve rielaborare costantemente in funzione della specificità della persona o delle persone con cui si confronta. Inoltre, ha una molteplicità di livelli di interazione visto che il ruolo fa da trait d’union tra posizioni apicali e secondarie, tra manager e i più svariati livelli gerarchici. Diventa quindi indispensabili possedere quell’ampiezza espressiva, quella cassetta degli attrezzi relazionale dalla quale prendere la chiave di interpretazione corretta di ciò che arriva e di ciò che più funzionale restituire. Questo può accadere sia in dinamiche one-to-one e sia in una riunione. In questo secondo caso è auspicabile avere competenze retoriche adeguate a farsi comprendere, apprezzare e, perché no? seguire visto che alla figura di speaker associamo istintivamente quella di leader in una dinamica che ha radici etologiche prima ancora che antropologiche.
Sei co-fondatore di Speaker Social Club, un gruppo Facebook dove poter migliorare le proprie competenze nel public speaking. Da dove nasce l’idea? Chi può accedervi?
Un gruppo Facebook che in realtà nasce su… LinkedIn! Eh sì, perché il bello di LinkedIn, se vi si approccia correttamente e lo si frequenta nell’ottica della divulgazione e dello scambio di contenuti di valore, è la quasi matematica certezza di intercettare professionalità e occasioni che altrove non troveremmo. A me è capitato: un giorno Antonella Brogi, quella che sarebbe diventata nel breve volgere di qualche settimana la mia #partnerincrime, mi manda un messaggio nel bel mezzo della piena pandemia, ci vediamo in una delle tantissime call che abbiamo fatto all’epoca e partiamo con il progetto Speaker Social Club. In pochi mesi abbiamo prima creato uno spazio dove imparare a parlare con e per il pubblico grazie innanzitutto a un test che permette di comprendere subito quale dei tre percorsi disponibili è il più adatto alle proprie esigenze; poi abbiamo accolto e stiamo accogliendo le curiosità, i video e le richieste di chi ha chiesto e ci chiede di entrare nel gruppo Facebook, un gruppo esclusivo e non escludente come ci piace definirlo, facendone semplicemente richiesta; inoltre, aperto un profilo Instagram dove carichiamo contenuti brevi sì, ma di facile ed immediata applicazione; infine, non poteva essere altrimenti, siamo tornati dove tutto era partito, su LinkedIn, con un profilo in cui divulghiamo contenuti più articolati e anche più sfidanti. Il tutto, ovviamente, rigorosamente targato e in stile Speaker Social Club!
Quali sono gli aspetti dell’essere un formatore che ti motivano maggiormente?
C’è un aspetto, oserei dire l’aspetto per antonomasia: la Persona (e la maiuscola non è un errore di battitura!). Tutte le volte che entro in un’aula scolastica o aziendale, infatti, il mio obiettivo è uno: migliorare l’autoconsapevolezza degli individui e delle organizzazioni partendo proprio dalla Persona, dalle sue esigenze e dal suo desiderio di miglioramento. Senza la Persona non c’è prodotto o strategia che tenga e senza miglioramento dell’individuo non c’è miglioramento sistemico del gruppo, piccolo o grande che sia.
Un libro da leggere almeno una volta nella vita.
Accidenti, solo uno? Va bene! Allora, suggerisco un grande classico che forse abbiamo letto da piccoli, ma che letto da adulti ci dà tutta un’altra visione della vita e del mondo: Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Un libro, peraltro, lungo il quale l’autore dissemina perle di neurolinguistica che ancora oggi mi chiedo se conoscesse o meno!
Ciao Iara, bentrovata e grazie per la tua disponibilità. Vista la tua lunga ed importante esperienza nel settore delle risorse umane, mi piacerebbe sapere cosa ti ha spinta ad avvicinarti a questo ambito fino a diventare HR Manager.
Ciao Giada, per me è un onore essere una delle tue testimonial del nuovo blog incentrato sulle risorse umane, grazie per il coinvolgimento! Complimenti per l’iniziativa, è importante dar voce a questo pezzo di mondo (quello HR) che spesso ancora non viene valorizzato come invece si dovrebbe. Inizio a rispondere alla tua intervista tuffandomi nel passato per riemergere nel presente!
Quando e perché è scattata la scintilla? Al terzo anno di università per caso (oggi aggiungo anche “per mia fortuna “!). Nella lunga lista degli esami facoltativi individuo quello di diritto del lavoro, mi dico “sarà noioso da paura ma proviamoci, può sempre tornare utile avere una base giuslavorista quando prima o poi entrerò nel mondo del lavoro”, lo frequento tutt’un fiato e mi si illumina la strada verso il futuro. Finalmente avevo capito quale volevo fosse la mia dimensione lavorativa: le Risorse Umane! Il mondo del lavoro stava attraversando un momento di passaggio e la figura dell’HR come la intendiamo oggi era ancora un miraggio.
Dopo tre anni di lavori precari e di fatto “tampone” perché, seppur formativi, non rispecchiavano esatta il mio sogno, sono finalmente approdata in Agenzia per il Lavoro. Non mi poteva capitare occasione migliore per costruirmi una panoramica HR più completa e complessa di questa. Ovviamente grazie Maw per avermi dato la fiducia (la mia esperienza era zero assoluto) e l’opportunità di lavorare imparando ed aggiungo pure divertendomi!
Dopo oltre 11 anni presso un’agenzia per il lavoro, MAW, sei diventata HR Manager di Ergon Group. Com’è stato il passaggio? Quali sono state le grandi differenze, ma anche le similitudini che hai riscontrato?
Ad inizio 2022 ho sentito dentro di me una forte necessità di costruirmi una specializzazione attraverso un percorso crescita professionale orientato al mondo Azienda. Non è stato semplice maturare questa consapevolezza perché significava tagliare il cordone ombelicale con Maw e soprattutto allontanarmi dalle persone facenti parte dei Team che gestivo, che negli anni avevo selezionato, fatto crescere e creato con loro una famiglia lavorativa. Elaborato questo stato d’animo, a febbraio mi sono candidata all’annuncio di Ergon Group, inizialmente senza farmi molte illusioni in quanto il mio profilo era molto carente delle competenze tecniche richieste. Subito invece vengo contattata e dopo due lunghissimi mesi di selezione, a cui mi sono aggrappata con tutta me stessa perché fin dal primo colloquio avevo sposato vision, mission e valori di Ergon, sono finalmente entrata a far parte di questa nuova famiglia. Nella ricerca di una nuova opportunità lavorativa per me era fondamentale condividere questi tre principi cardine poiché considero il lavoro parte integrante della mia vita, nella mia azienda devo potermi sentire me stessa, esprimere i miei principi, sentirmi parte integrante dell’organizzazione e sposarne il pensiero che sta alla base del vivere quotidiano.
Differenze tra le due esperienze? Ce ne sono eccome! E sono quelle che mi regalano tantissimi stimoli. Intendo: organizzazione chiara (esiste un organigramma dettagliato!! Scusa Giada l’entusiasmo ma ho imparato da pochi mesi a non dare nulla per scontato, nemmeno l’ABC!), job title coerenti con livelli e responsabilità, mansionari, procedure aziendali rilasciate dall’organo preposto della qualità, sono alcuni esempi. Se vogliamo parlare del mio ruolo, ricoprendo la funzione di HR la mia mission è mettermi a disposizione dei colleghi occupandomi (e preoccupandomi) della loro felicità lavorativa. Potrebbe sembrare banale?? Fidati che non lo è, per nulla, perché significa intraprendere ogni giorno azioni, non sempre facili, e prendere decisioni delicate ma necessarie per rispondere a tutte le loro necessità. Quindi fammi dire che fa la differenza che ci sia o non ci sia questa funzione in azienda! Soprattutto in una azienda di medie dimensioni.
Purtroppo, nella mia esperienza precedente l’assenza di questo ruolo e la mancanza di un piano strategico HR li ho sofferti parecchio. Traggo la conclusione che non è né la dimensione né il fatturato di una azienda che rende più appetibile una esperienza lavorativa rispetto ad un’altra, soprattutto nel contesto storico attuale. Le persone oggigiorno pesano maggiormente il coinvolgimento nelle scelte aziendali, l’ascolto da parte della Direzione, la chiarezza di ruolo, e non in ultimo un percorso di crescita trasparente e coerente con le proprie aspettative.
Similitudini riscontrate fra le due realtà francamente poche poiché riflettono logiche e culture molto diverse.
A tuo parere, quali sono le caratteristiche essenziali che un HR manager deve avere?
Ho intrapreso da poco questa nuova esperienza in questo ruolo quindi non posso considerarmi un guru! Ma avendo conosciuto tantissimi HR manager in questi ultimi 12 anni sicuramente posso affermare che alla base deve esserci una forte capacità di visione d’insieme. Mi spiego: l’HR manager deve avere piena cognizione e padronanza del business aziendale poiché è questo che successivamente guida le scelte anche in ambito HR.
Se parliamo di soft skills, sicuramente è importante un buon mix di ascolto e mediazione, oltre che una spiccata dote di sensibilità nel captare quotidianamente gli stati d’animo dei componenti dell’organizzazione al fine di trovare un buon compromesso tra obiettivi individuali e obiettivi aziendali. Gli imprenditori se vogliono aver realmente successo devono cedere di fronte all’evidenza che l’HR manager è una funzione di staff essenziale e strategica. Ed anche “chi” la ricopre fa la differenza, la passione per questo mestiere è l’ingrediente principale. Ricordiamoci inoltre che la partita si vince o si perde in funzione delle spiccate capacità dei singoli componenti della squadra ma anche della bravura dell’allenatore nel compiere le scelte giuste!
Hai un mantra o una frase che guida il tuo lavoro e le tue giornate?
Mi piace ricordare questa citazione di H. Ford:
Quali sono gli aspetti più positivi del ruolo di HR manager? Quali invece quelli più complessi?
L’aspetto estremamente positivo in primis è il contatto diretto con la Direzione, questo permette all’HR manager di essere parte attiva ed integrante di tutti i processi aziendali, di avere un confronto immediato con la Direzione che ha come diretta conseguenza l’eliminazione del rischio di incagliarsi nei passaggi di mezzo, di poter essere artefice del cambiamento e dell’evoluzione dell’azienda, di portare l’azienda a crescere in termini di fatturato attraverso le competenze delle proprie persone.
Le complessità del ruolo di HR manager derivano spesso dal fatto che nasce come funzione collante fra i diversi stakeholder dell’organizzazione, e come tale deve garantire un bilanciamento perfetto fra le scelte della Direzione e le necessità dei singoli componenti attraverso un ascolto molto attento di tutte le voci a garanzia di un beneficio ad ognuno di essi.
Cosa consiglieresti ad una persona che vorrebbe approcciarsi al mondo delle risorse umane?
Quando in Maw sostenevo i colloqui di selezione dei miei futuri collaboratori trasferivo loro sempre un messaggio ben preciso: questo lavoro non è adatto a tutti, come si è soliti pensare. Sembra così semplice dall’esterno! L’HR riceve CV, li legge, convoca i candidati e li valuta a colloquio, li assume. Passaggi che può fare chiunque, si è portati a pensare! Non è assolutamente così.
Ad oggi ancora non c’è una vera e propria Laurea in HR, ci sono lauree umanistiche affini che possono fungere da base. Quindi le competenze specifiche del ruolo si possono acquisire sul campo (come è successo a me) oppure attraverso successivi Master in ambito HR. Ma ciò che realmente fa la differenza tra un bravo HR ed uno che lo prende come un lavoro qualunque è la grande passione per questo magico mondo! Quindi consiglio sicuramente, se c’è anche mezza propensione, di provarci, con la consapevolezza che in itinere ci si può rendere conto che sarà il lavoro della vita oppure (senza colpevolizzarsi) che sarà meglio intraprendere un’altra strada e di certo non casca il mondo.
Lavorare nel mondo HR è una vocazione e come tale prevede una dedizione 100% in termini di energie profuse verso il prossimo, anche oltre il canonico orario lavorativo.
Si parla spesso di social recruiting. Qual è la tua esperienza con i social e quali secondo te sono i migliori in questo momento?
Non mi sento molto confidente con il mondo social, mi definisco infatti una boomer per utilizzare un termine contemporaneo! Però mi sento di sponsorizzare LinkedIn come veicolo per reclutare candidature interessanti (tra l’altro l’esperienza personale ne conferma l’efficacia in quanto mi ha aiutata a trovare questa opportunità in Ergon Group). Spero che il buon senso di ognuno di noi ci aiuti a non traghettare questo social verso la decadenza… abusandone e riducendolo a vetrina per tematiche non inerenti al mondo del lavoro.
Grazie di cuore Giada per avermi dato l’opportunità di condividere la mia esperienza e spero di aver regalato emozioni positive ed ispirazione a chiunque sia in questo momento in procinto di intraprendere un percorso nelle Risorse Umane!
Grazie a te Iara, penso tu l’abbia fatto.
Alla prossima intervista di Giada’s Project.
Carrello
Gestisci Consenso Cookie
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.